Michel Onfray e la sua critica alla reificazione, da destra

ottobre 4, 2020

Michel Onfray non è poi così noto dalle Alpi in giù, ma dalle parti della Senna gode da anni dell’attenzione dei media. Filosofo da salotto tv, provocatore, intellettuale si è mosso da principio da posizioni di sinistra dura e pura, per poi trasformarsi a partire dal 2010 – in parallelo col crescente successo – in una figura politicamente sempre più ambigua: auto definitosi sovranista, ha iniziato a denunciare la cosiddetta (da lui) islamo-sinistra ed a straparlare in maniera via via più superficiale. Questo inesorabile scivolare in posizioni che Vanetti chiama «la sinistra di destra» si è concretizzato recentemente nella pubblicazione di una nuova rivista, Le front populaire, il fronte popolare. Rivista orgogliosamente sovranista, si definisce già nell’occhiello del titolo della testa «la rivista di Michel Onfray»: credo che ciò basti a disegnare la megalomania del personaggio. Il nuovo numero è dedicato niente meno che allo stato profondo, concetto caro a Trump, ai seguaci di Q versante QuAnon (e non Luther Blisset) ed alla peggiore destra mondiale. Concetto però che in qualche maniera può trovare orecchie interessate anche a sinistra, probabilmente anche grazie alla profonda penuria di idee in cui naviga la gauche francese.

Ora, il nostro Onfray rientra a pieno nel largo consesso di filosofi di cui snobbo la lettura. Si tratta di un mio limite caratteriale, probabilmente, ma ho sempre avuto un’antipatia a pelle verso questo generi di personaggi ed ho accuratamente evitato di aprire un suo volume, anche durante il periodo in cui poteva godere di una fama migliore. Figuriamoci ora.

Criticare qualcuno che non si sia mai letto è probabilmente poco ortodosso: è un po’ come criticare un film prima di vederlo e farsi dire da Rino Gaetano di non essere figlio unico (mio fratello credo concordi con tale affermazione). Qualche giorno fa però il buon Onfray si è ritrovato ospite gradito in una trasmissione radio, una pessima trasmissione francese abituata a pessimi ospiti. E, complice Youtube, ho avuto modo di ascoltare e ri-ascoltare il suo confuso intervento.

Ora non m’interessa qui entrare a smontare la retorica che vuole l’attuale crisi Covid come una specie di invenzione atta a governare meglio il popolo. La mancanza di nessi logici nell’argomentazione è evidente a chiunque non abbia deciso a priori di concordare con Onfray. Volevo però soffermarmi su un paio di passaggi del suo discorso perché toccano due argomenti a me cari. Il primo è quello della tecnocrazia, l’altro è quello del concetto marxiano/marxista della reificazione.

Il tema della tecnocrazia non è presentato con questo nome, ma con quello più alla moda di «deep state/état profond». In altre parole, nella società capitalista odierna i fili sarebbero retti da un gruppo ristretto di pupari internazionali o, se non gradite il mio sicilianismo, di marionettisti. Dietro ogni grande evento storico e dietro ogni fenomeno vi sarebbero abili mosse di manipolazione atte a realizzare il piano per il nuovo ordine mondiale. Questa teoria piace oggi tanto all’estrema destra, ma visto che i cattivi sono comunque dei capitalisti, ha chiaramente una sua attrattiva a sinistra. Ma se intrighi e giochi di lobby possono spiegare le manipolazioni politiche, il potere sui media quelle sull’opinione pubblica, come fanno tali pupari a influenzarci nei comportamenti quotidiani? Ma grazie alla reificazione.

La reificazione è, secondo Onfray, la riduzione della persona a oggetto, a merce. Qui vi troviamo – con una differenza nascosta, di cui vi parlerò fra poco – le argomentazioni classiche che il marxismo hegeliano ha sempre portato alla società capitalistica fin da Storia e coscienza di classe (quindi primi anni 20 del secolo scorso): l’avere che sostituisce l’essere, la vita umana che perde il proprio valore nel momento in cui smette di essere produttiva, ecc. Non possiamo, però non strizzare l’occhio anche al buon ventre fascista del pubblico, e quindi reificazione diventa anche la teoria gender (mamma mia), perché una persona può decidere di «comprare» il proprio sesso, l’aborto ed il multiculturalismo. Quest’ultimo sarebbe fondamentale perché distruggere un’identità culturale (per esempio quella francese) è un buon modo per eliminare quel valore non commerciale che oggetti, culture e persone hanno. Odiare la Francia farebbe parte del piano per renderci tutti «zombie», come dice l’irritante intervistatore. La conclusione svolta di nuovo a sinistra, dato che non può mancare a un discorso del genere l’originalissima critica alle persone che stanno troppo davanti ai telefonini, con cui chiacchierano, soffrono e s’arrabbiano in caso di un graffio fortuito, ignorando ormai i loro cari in carne ossa.
Una narrazione (non direi ragionamento, perché del ragionamento c’è soltanto l’estetica) del genere è estremamente pericolosa. È pericolosa perché flirta con i pensieri più putridi dell’estrema destra, ma riattualizzando concetti propri alla sinistra radicale. Ed in un momento in cui a sinistra mancano idee, temo che non saranno in pochi a lasciarsi sedurre.


Vediamo di capire, però, cosa non va in tutto questo ambaradan. Un autore a me caro, Lucien Goldmann, scriveva negli anni ‘60 pensieri per certi versi simili a quelli di Onfray. Marxista d’ispirazione luckàsiana, riteneva che la società a lui contemporanea fosse effettivamente affetta da preoccupanti fenomeni di reificazione. Credeva anche che più che i capitalisti, la classe nemica fosse quella, estremamente ristretta, dei tecnocrati. «Ah, lo vedi? Lo diceva anche lui negli anni ‘60». Con calma!


Intanto, se il piano fosse ancora in atto dopo mezzo secolo, si potrebbe concludere facilmente che ‘sti tecnocrati non siano poi così efficienti. Ma più seriamente, va notato subito che per Goldmann e per tutti i marxisti e post-marxisti seri il controllo da parte di tale classe non era così assoluto, anche se ambiva ad esserlo. E certo il sistema si poggiava sui processi di reificazione, ma tali processi non erano prodotti dalla tecnocrazia. Qui si snoda il primo problema squisitamente filosofico di Onfray. Non fa che nominare la reificazione, cita il Marx del «feticismo delle merci», ma in realtà parla di tutt’altro. Il feticismo delle merci non si produce grazie alle manipolazioni nascoste di uno stato profondo. Per Marx esso è il prodotto naturale di un sistema di produzione.


Andando ancora più a fondo, Onfray può dire le cose che dice perché oggi nessuno maneggia più certi termini filosofici. Nessuno tranne pochi studiosi di filosofia, fra cui il sottoscritto. Reificare vuol dire riduzione a oggetto. Ma di cosa? Onfray parla di persone. Lukàcs, Goldmann, la scuola di Francoforte e tutti gli altri hegelo-marxisti paralano di soggetti. Può sembrare un problema nominale, ma è al contrario un problema concettuale fondamentale.


All’interno di un fenomeno di reificazione, il soggetto diviene (o viene presentato come) qualcosa che non è capace di autonomia, – appunto – di manipolabile come si maneggia uno strumento. Perde quindi la sua natura di soggetto e diviene oggetto, cosa. Onfray, invece, pone il problema da un punto di vista di un non ben spiegato valore naturale proprio della persona. La persona è portatrice di un valore morale naturale, ma viene svilito in valore di consumo. Tale trasformazione è ben lontana dalla dialettica valore d’uso e valore di scambio marxiano.


Chiariamoci con un esempio: se ho a cuore un soggetto e la sua autonomia, non ho motivo di osteggiare la sua scelta di cambiare sesso (o far aderire il proprio sesso biologico con quello psicologico). Se invece ritengo la persona come portatrice di una valore naturale da conservare, una cultura come avente valore nella sua tradizione, che deve essere a tutti costi conservata pura, non posso che criticare la scelta di intaccare la natura originaria di una persona o la composizione culturale di un Paese.


In altre parole, Onfray è uno strenuo difensore della reificazione, anche se in una forma che slitta da quella propria del libero mercato. Critica quest’ultimo, ma da una posizione romantica di destra.


L’ossatura del suo discorso è che ognuno di noi (ma anche ogni cultura) ha un valore che può essere accostato a quello di un’opera d’arte o di un bene culturale. É una cosa che vale più di una cosa qualsiasi e non può essere ridotta a merce. Ma un bene culturale è tale solo se rimane intatto. Resta una cosa, ma che va difesa nella sua forma originaria.


È curioso notare come già Walter Benjamin avesse ai suoi tempi criticato l’idea di bene culturale. La storia, gli oggetti d’arte, per lui avevano valore solo se potevano essere riattraversati e cambiati di senso alla bisogna. Per questo nulla è più dannoso, in un certo senso, di un lavoro museale che fissi e archivi degli oggetti come beni culturali, vietando che essi possano essere interpretati nuovamente e possano perciò essere in qualche modo cambiati, intaccati.


E se tale discorso ha senso, ne ha in modo più lampante quando si parla di realtà attuali. Onfray riassume la scelta dolorosa di cambiare sesso biologico, con i problemi sociali e medici che comporta, come una sorta di cambio d’abito. Accomuna la scelta di abortire con la feticizzazione del telefonino. In pratica, riduce sentimenti, sofferenze, decisioni, in scelta consumistica.


Onfray disprezza la riduzione dell’uomo e della donna a merce, perché lo/la vede come un bene. Vuole che tale oggetto rimanga legato a un’idea di valore mitico e originario, invece che ridursi a valore di scambio. Ma non s’interessa al fatto che tale oggetto voglia diventare un soggetto, voglia essere libero, miri ad un’autonomia e a decidere da sé che valore darsi, quale darne al suo corpo, alle sue proprie decisioni.


Per questo motivo, il problema della libertà non lo tocca: la libertà individuale, come quella collettiva.


Tengo a precisare che il termine persona si contrappone qui a soggetto, perché Onfray non lo usa nella maniera propria della tradizione filosofica francese: nessuna traccia del personalismo di Mounier. Mi sembra che egli si limiti al concetto giuridico di persona fisica avente diritti, doveri e un valore da salvaguardare. Una persona-bene culturale, appunto.


Per finire, l’elemento più pericoloso di tale sragionamento, è il fatto di presentarsi come anti-capitalismo, come forma di pensiero che ingloba tratti di radicalismo di sinistra. Però sposta la lotta di classe dai posti di lavoro, verso un corpo a corpo contro un mitologico stato profondo. Non è un caso che fra tutte le critiche fatte al Macron, Hollande e Sarkozy Onfray non metta mai l’accento sulla Loi travail. Onfray ci chiama tutti alle armi, pronti a lottare contro un nemico oscuro e pervasivo, che si incarna in tutti coloro che non la pensino come lui (come si vede a inizio video), ma non tocca l’organizzazione e i rapporti di potere dei luoghi di lavoro. E la lotta di materializza, guarda un po’, rifiutandosi di votare Macron in ballottaggio con Le Pen (vedi la critica a L’humanité, giornale comunista, per avere invitato a votare contro il Front National all’ultimo ballottaggio presidenziale). Così, in nome della lotta allo stato profondo, il nostro filosofo può mandare in soffitta l’antifascismo.


No, non credo che il prossimo libro che leggerò, sarà un libro di Onfray.

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